A Pienza persino i rumori fanno piano, quando cerco pace mi metto in macchina e vengo qui dove nemmeno i turisti graffiano i silenzi.

Basta un colpo d’occhio sulla piazza di Pio II – Papa Piccolomini, umanista per eccellenza, classico, filosofo, convinto che misura e bellezza fossero figlie della stessa madre – per capire il bisogno d’ordine con cui l’uomo scavalcò il Medioevo per mettersi al centro del Rinascimento e guardare avanti.

È l’unica piazza italiana a trapezio, l’altra sta al Campidoglio firmata Michelangelo, il trapezio che illudeva prospettive e grandezze facendo sembrare diversi i palazzi, la via del corso, le persone, le speranze. Pienza si studia a scuola come la città ideale del Rinascimento: è tutto vero, nessuno ha mentito. Sta nel pugno di una mano senza rinunciare a niente, costruita a tavolino per esercitare gli ideali di Leonardo, Leon Battista Alberti, Bernardo Rossellino, loro sì influencer eterni. Il progetto, mai tradito da fine Quattrocento, voleva che dietro il Duomo ci fosse sempre il cielo, solo il cielo, nessun altro ostacolo tra Dio e l’uomo, una fedeltà che innamora ancora. C’è un incantesimo a Pienza, non invecchia il tempo, non invecchia il sogno, a camminarle i vicoli sembra di potersi fidare ancora della vita.

Anche Mario Luzi perse la testa per lei, pur fiorentino, e ci passò tutte le estati dal ’79 al 2005, tutte nessuna esclusa finché la vita gli disse basta. Guardava la Val D’Orcia di sotto e scriveva l’oro al tramonto, la solitudine, le domande dell’uomo. Guardo i cipressi in fila come imbastiture su giacche da cucire mentre penso che ha donato a Pienza la sua intera biblioteca come a dirle ti amo, credimi.

Due ragazze cinesi fotografano la targa che lo ricorda, in quel punto il camminamento col suo nome si allarga, loro posano e ridono. Chiedo se lo conoscono, se quel nome gli dice qualcosa, una mi risponde di no ma tanto la sera in albergo studiano quello che fotografano il giorno. Vengono da Pechino, chissà se un poeta ermetico sa parlare anche a loro.

Luzi non occupava spazi di troppo, guardava e scriveva senza invadere il foglio, misurato, vivo. Luzi era il dubbio che cerca e che chiede, dovremmo dirgli grazie più spesso.

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